Oggi parliamo di gestione dei rifiuti, un problema balzato all’opinione pubblica dopo le note vicende di Napoli. Il ministero dell’Ambiente ha istituito un sistema di tracciabilità nel trasporto dei rifiuti – il famoso progetto Sistri – volto ad escludere le possibili infiltrazioni malavitose. Nulla da dire, ci mancherebbe. Tuttavia difficoltà attuative, costi elevati e possibili vizi di legittimità hanno imposto una proroga di cinque mesi, rinviando al 31 maggio 2011 la decorrenza delle sanzioni.
Quali sono i problemi? Innanzitutto i costi: il processo coinvolge infatti i trasportatori e moltissime piccole imprese, chiamate a contribuire con soldi propri all’avvio del sistema. Inoltre molti automezzi che trasportano rifiuti hanno già a bordo un sistema di tracciabilità e tuttavia sono costretti – per legge – a investire nuovamente per acquistare il prodotto indicato dalla normativa, ossia una black box di uno specifico fornitore. Prodotti equipollenti o superiori non sembrano ammessi: se un veicolo è già dotato di sistemi di radiolocalizzazione satellitare è condannato a spendere una seconda volta.
Immaginate il danno per chi produce software gestionali e sistemi di localizzazione satellitare. Danno fatto ben presente da Confcommercio e Confindustria e sul quale, infatti, è già aperta una pendenza presso il TAR del Lazio. Tra l’altro la norma che istituisce il Sistri sembra in conflitto con la direttiva 2010/40/UE del Parlamento Europeo (nata dopo, ma certamente a seguito di una gestazione non breve), che promuove la diffusione dei sistemi di trasporto intelligenti nel trasporto stradale raccomandandosi che si tratti di “sistemi interoperabili basati su standard aperti e pubblici, accessibili su base non discriminatoria a tutti i fornitori e a tutti gli utenti di applicazioni e di servizi”. Come si adegueranno i veicoli dotati di black box? Mistero.
Ma entrando più a fondo nella storia di questo progetto, si sente subito l’odore della gabola all’italiana. La legge impone infatti l’adozione di un sistema specifico, che è distribuito da un fornitore unico (che quindi opera senza rischi d’impresa), al quale, secondo molte fonti, la realizzazione del sistema parrebbe essere stata assegnata senza gara. O comunque con modalità poco trasparenti, dal momento che sull’intero progetto è stato imposto il segreto di stato.
Ciliegina sulla torta: nelle prime fasi installative la black box raramente ha dato prova di funzionare.
Infine i vettori esteri non sono assoggettati al medesimo obbligo di tracciabilità (una volta tanto l’Italia fa scuola), ed ecco servita su un piatto d’argento la scorciatoia per le ecomafie: scegliere vettori esteri. Alla faccia della libera concorrenza.
Ma i nostri governi sono abituati a distorcere il libero mercato con leggi-briglia, e in questo sono sempre stati perfettamente bipartisan. Talvolta lo fanno con le migliori intenzioni, ma talvolta forse no. Ve la ricordate la Check Box? Era un marchingegno, tipo scatola nera, che si poteva installare a bordo auto per far monitorare la propria condotta alla guida e gli eventuali incidenti. In cambio ti garantivano il 10% di sconto sull’RCA. Lo scopo era ridurre le frodi assicurative e in definitiva far risparmiare i cittadini. L’idea, assolutamente condivisibile nel principio, è nata dall’ISVAP (l’istituto che vigila sulle Assicurazioni) e ha visto l’esborso di 7 milioni di euro per i tre anni di sperimentazione.
Tutto bello? Insomma… Il fornitore (anche lì unico, solito vizietto) è stato selezionato attraverso una gara d’appalto europea, ma in un momento in cui il CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano, preposto alla normazione tecnica) non aveva ancora definito le specifiche di prodotto.
Non basta: un anno prima dell’aggiudicazione, il ministero delle attività Produttive lanciava un comunicato stampa sulla futura sperimentazione denominando il prodotto “Clear Box”. Peccato che fosse il nome commerciale del prodotto di punta della stessa azienda che si è poi aggiudicata la commessa un anno dopo. Curiosa coincidenza. Sarebbe poi interessante, a distanza di 4 anni, avere qualche dato sui risultati della sperimentazione verso la lotta alle truffe assicurative, visto che la Check Box all’inizio veniva presentata con funzionalità antifurto, mentre si tratta di un semplice localizzatore. E’ pur vero che la parola “antifurto” è stata eliminata nelle fasi successive del progetto (anche sotto le pressioni di varie categorie danneggiate), ma qualche assicurazione ha giocato sull’equivoco proponendo il prodotto accompagnato da sconti contro furto – e pure incendio. Forse bisognerebbe ricordare che per ridurre furti e rapine servono prodotti più complessi…
In sintesi, ci piace pensare che il decisore pubblico sia sempre animato dalle migliori intenzioni, ma resta che sono state operate delle distorsioni concorrenziali che hanno danneggiato varie categorie operative. A qualcuno tocca pur dirlo. Sentite questa intervista.
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