Vigilanza Privata: un caso di licenziamento per giusta causa

22 Giu 2012

di Ilaria Garaffoni

Caro Direttore,
vorrei sapere in quali casi il titolare dell’Istituto può licenziare per giusta causa.

Grazie,

A.F.

Caro A.F.,
la guardia giurata può essere licenziata per giusta causa se viene meno il rapporto fiduciario con l’Istituto di Vigilanza Privata. E’ il datore di lavoro a decidere quando la fiducia venga meno, ma sta al giudice decidere se le ragioni dell’Istituto di Vigilanza siano sufficienti a far cadere il vincolo fiduciario e se la gravità dei fatti contestati sia proporzionata alla gravità del licenziamento. Nel caso sotto commentato la guardia aveva abbandonato la pattuglia compilando un falso rapporto ed è stata licenziata per giusta causa.

Lascio la parola al nostro consulente legale specialista in vigilanza privata, Roberto Gobbi, con una nota ovvia: se il capo vi licenzia avete ben diritto di impugnare il licenziamento, ma non cercatevela perchè potrebbe finire male.

“E’ legittimo il licenziamento per giusta causa della guardia giurata quando viene meno il rapporto fiduciario. A deciderlo è stata una recente sentenza della Corte suprema di legittimità (Cass. Sent. N.8651 del 30 maggio 2012) con la quale è stato respinto il ricorso di una guardia giurata, che aveva impugnato il provvedimento di licenziamento, peraltro confermato in appello.

 

L’uomo aveva subìto il procedimento disciplinare, culminato col licenziamento, perché aveva abbandonato il servizio di pattuglia all’interno nella zona di sua competenza, compilando un rapporto falso nel quale dichiarava invece di aver effettuato il controllo.

A ben vedere la sentenza stabilisce, anzi conferma, una consolidata giurisprudenza della Suprema Corte in tema di recesso per giusta causa, ovvero che allorquando si verifichino degli eventi, tra il datore di lavoro ed il lavoratore, tali da impedire la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro, in quai casi si rientra nella legittimità del licenziamento.

In questo senso l’art. 2119 c.c., al suo primo comma, stabilisce quanto sopra appena asserito ovvero: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto [1373] prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente [2244]”.

Appare quindi che è il datore di lavoro a stabilire se l’illecito commesso dal lavoratore sia o meno inquadrabile nella gravissima fattispecie di cui al primo comma dell’art. 2119 c.c.

Questo vuol dire assoluto arbitrio del datore di lavoro nei confronti del lavoratore?
Assolutamente no. Questo vuol dire che il datore fa una scelta impugnabile innanzi al giudice del lavoro con i mezzi ordinari, il quale è l’unico che farà “la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento, (la quale valutazione) si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede dì legittimità, se congruamente motivato (Cassazione civile, 4 giugno 2002 n. 8107)”, così come affermato nella sentenza di cui all’oggetto della presente trattazione.

Tradotto: solo il giudice di merito, e neanche la Cassazione, valuterà, secondo i parametri che di seguito vedremo, se il licenziamento per giusta causa è, nel caso concreto, lecito o meno, con l’immediato risvolto che, qualora venisse considerato illecito, gravi sanzioni ricadrebbero sul datore di lavoro, che potrebbe anche dover sopportare in contemporanea il reintegro del lavoratore, il pagamento delle mensilità non percepite dal licenziamento fino alla definizione della controversia ed il risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), qualora sussistente e dimostrato in sede giudiziale. Una scure, questa, che potrebbe mettere in seria difficoltà il datore di lavoro.
Di questo, per fortuna i datori di lavoro sono consci e pertanto addivengono ad un licenziamento per giusta causa solo se fortemente supportati nelle scelta, dalla gravità dei fatti.

Ma veniamo a quelli che sono i parametri che il giudice deve applicare per analizzare i comportamenti del lavoratore e quindi per sussumere gli stessi con la fattispecie astratta prevista dall’art. 2119 c.c.

Asserisce la Suprema Corte: “….. per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”.

Direi che null’altro c’è da aggiungere a quanto affermato dalla Corte che, una volta tanto, è di una chiarezza cristallina, se non in merito “all’intensità dell’elemento intenzionale”.

La Cassazione ha quindi voluto sottolineare che la forza e la determinazione delle azioni negative della guardia giurata, la quale tra l’altro ha abbandonato il posto di lavoro e ha cercato di celare tale gravissima inadempienza con un rapporto falso (altro fatto estremamente grave), sono di tale intensità da giustificare un provvedimento di licenziamento per giusta causa.
E’ chiaro quindi che se l’elemento intenzionale fosse stato meno intenso, forse si sarebbe potuto incrinare l’impianto posto a giustificazione del licenziamento dal datore di lavoro.

Una particolare attenzione mostra poi la Corte alle problematiche poste dal CCNL degli Istituti di Vigilanza in relazione al licenziamento per giusta causa, affermando tra l’altro che: “Ed anche a voler ritenere che alcuni dei fatti posti a base del licenziamento non sono previsti dal contratto collettivo come causa di risoluzione del rapporto, così non è per l’abbandono del posto di lavoro secondo l’accertamento del giudice del merito non adeguatamente censurato dal ricorrente, laddove afferma che costui si era allontanato dalla zona a lui affidata per la vigilanza senza alcun valido motivo e senza rispondere al telefono. Infatti la corte territoriale ha richiamato la esplicita previsione del CCNL di categoria dell’abbandono del posto di lavoro, sottolineandone la gravità”.

In buona sostanza, se l’abbandono del posto di lavoro è sanzionato dal CCNL con il licenziamento per giusta causa, ciò non toglie, a mio sommesso parere, che anche qualora ciò non fosse esplicitamente previsto, il datore di lavoro sarebbe sorretto dalla norma contenuta nel codice civile qualora pervenisse alla medesima conclusione, ovvero al licenziamento “in tronco”, previsto dall’attuale CCNL.

A conclusione, pertanto, della scabrosa vicenda, non si può certo censurare la sentenza della Suprema Corte la quale è, a mio modesto giudizio, congruamente motivata e immune da vizi logici o giuridici”.

Roberto Gobbi

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