Da oltre 100 anni leader nella sicurezza, nel 2014 il Gruppo KSM ha rilevato il Gruppo IVRI dando vita ad uno dei principali gruppi europei nel settore della sicurezza privata. Ma oggi si parla di 405 posti di lavoro persi perchè l’azienda non piò più – si legge in una nota stampa – “proseguire i servizi che non garantiscano margini idonei a mantenere e tutelare i diritti di tutti i lavoratori della società”. L’azienda, prosegue la nota, ha aperto un tavolo di collaborazione con tutte le organizzazioni sindacali “al fine di limitare i disagi e i sacrifici per i propri collaboratori derivanti dalla mobilità, e ripristinare le normali condizioni di mercato e di legalità in un settore che in questi anni ha sofferto di una deregulation e di una guerra dei prezzi insostenibile”.
Ne abbiamo parlato direttamente con Luciano Basile, Amministratore Delegato di KSM.
E’ su tutti i giornali: in Ksm si perderanno 405 posti di lavoro. Come si è arrivati a questo punto?
Ci si è arrivati a causa della pessima congiuntura di mercato, che vede la proliferazione di aziende che operano al di fuori di ogni perimetro di controllo e di legalità. Il processo di certificazione cogente nel comparto, che avrebbe dovuto portare pulizia e ordine sulla scacchiera competitiva, non sta purtroppo mostrando gli effetti auspicati dalla parte sana del mercato, con il risultato perverso che proprio la parte sana del mercato – quella che sta alle regole e che investe nella sicurezza dei lavoratori e nella qualità dei servizi – finisce con l’essere penalizzata dallo stesso soggetto pubblico che ha stabilito il quadro delle regole. Le basti sapere che in Sicilia è stata vinta una gara pubblica per servizi su obiettivi ritenuti sensibili a 13 euro l’ora, quando le tabelle ministeriali sul costo medio del lavoro parlano di 21 euro l’ora minimo.
E’ possibile operare ribassi fino al 51,86% restando nel quadro delle regole, agendo ad esempio sulle economie di scala?
In aree di servizio labour intensive i costi sono certificati e la matematica finanziaria non è un’opinione. Il costo del lavoro è per sua natura incomprimibile, quindi anche se si volessero acquisire quote di mercato al costo o addirittura in perdita, con tariffe a 13 euro l’ora si riuscirebbero forse a corrispondere i salari del personale operativo, ma tutto il resto? Previdenza sociale, erario, assicurazioni, formazione, sicurezza del lavoro, controlli qualità, personale amministrativo e commerciale, costi gestionali? No, non è possibile restare nel perimetro delle regole a queste tariffe.
Eppure esiste un meccanismo di vigilanza sulla congruità delle offerte…
La premessa è che per appalti su servizi labour intensive, come sono quelli di sicurezza, la stazione appaltante pubblica dovrebbe applicare di default il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’amara realtà è invece che tuttora si applica il criterio del massimo ribasso.
In questo quadro di per sé viziato, la valutazione di un’offerta come anormalmente bassa rientra poi nella discrezionalità della stazione appaltante, che può chiedere eventuali delucidazioni all’impresa. Non esiste dunque un ente terzo che valuti la conformità della tariffa: chi può ritenere anomala un’offerta è lo stesso ente che deve poi aggiudicare la gara – ed è lo stesso ente che deve rientrare nei patti di stabilità e che deve fornire servizi ai cittadini, e che quindi ha spesso difficoltà a sospendere una gara, con ritardi e disservizi annessi.
E l’ANAC che fa?
Le linee guida emanate dall’ANAC non sono vincolanti, di fatto sono un “tutorial” per le stazioni appaltanti. L’unica possibilità è adire i TAR, ma è una strada particolarmente onerosa e raramente risolutiva, dal momento che le risposte arrivano quasi sempre a servizi ormai resi. Magra consolazione.
Come si può dunque uscire dall’impasse?
Occorre una riforma che stabilisca un piano continuo, severo e generalizzato di controlli: questo sarebbe già sufficiente a generare una forte selezione naturale sul mercato.
Poi sarebbe necessario imporre alle stazioni appaltanti il rifiuto secco di ogni offerta anomala: chi scende al di sotto di un costo del lavoro – che è stato elaborato e vidimato dal ministero competente – dev’essere rifiutato tout court. Diversamente si favorisce solo una selezione al ribasso.
Come risolvere l’endemica carenza di personale che affligge il nostro sistema dei controlli?
Si potrebbe pensare all’istituzione di osservatori territoriali (a livello regionale o provinciale) cui deferire ogni anomalia: in questo modo si dovrebbero agevolare le operazioni di controllo delle autorità periferiche limitandole ad azioni mirate.
Lo stesso sistema certificativo messo in campo avrebbe invero dovuto portare a controlli mirati, tuttavia ancora tantissime imprese mancano all’appello, a deadline ampiamente scaduta…
E’ al vertice del più importante gruppo italiano di sicurezza: puntare sulle committenze estere è un’ipotesi plausibile?
Siamo orgogliosi di adottare degli standard qualitativi assolutamente in grado di competere con le migliori aziende europee: tra i più ambiziosi progetti di Ksm si annovera proprio la possibilità di sbarcare in alcuni stati strategici del vecchio continente e servire anche le committenze estere.
E se fossero le imprese di sicurezza straniere a sbarcare nel Belpaese?
Temo – e lo dico con rammarico, mi creda – che i grandi brand esteri ritengano l’Italia un mercato poco interessante: politica del lavoro altamente instabile, tutela del credito inesistente, pressione fiscale esasperante e nessuna certezza del diritto non sono elementi di particolare attrattiva per nessuna impresa…