Contractor, Vigilanza Privata, Antipirateria: un mercato senza norma

18 Apr 2017

di Giovanni Villarosa

Lo scorso 21 marzo, presso la Camera dei Deputati, si è tenuto un convegno sul ruolo delle Private Military Security Companies organizzato da Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Diversi gli argomenti trattati: dall’interesse nazionale alle missioni italiane fuori area, dalla definizione normativa dei Private Security Contractors (PSCs) fino al ruolo di un privato, ancora non pienamente perimetrato ed in continua evoluzione, secondo quel concetto di sussidiarietà tuttora figlio del pacchetto Pisano. Per vigilanzaprivataonline era presente Giovanni Villarosa, Senior Security Manager, Laureato in Scienze dell’Intelligence e della Sicurezza, esperto di Sicurezza Fisica per Infrastrutture, Master STE-SDI.

Le professionalià (che ci sono)
Particolare attenzione è stata dedicata agli aspetti legislativi sull’ipotetico ruolo delle PSCs in Italia secondo un modello di integrazione delle attività di stakeholders, pubblici e privati, impegnati nel settore della sicurezza. E’ pure stato analizzato il futuro mercato del Security Contractors, che potrebbe offrire uno sbocco professionale a quanti, provenendo anche da esperienze nelle Forze Armate e di Polizia, desiderano operare in tale ambito. Altro argomento scottante per le istituzioni è quello del nutrito gruppo di ragazzi che, per diverse ragioni di bilancio, dopo essere stati formati e addestrati e aver servito la Patria in ferma volontaria, non sono stati riconfermati in servizio, né hanno trovato spazio presso altre forze di polizia: professionisti con esperienza operativa in diverse missioni in complessi teatri esteri, possessori di un knowhow invidiabile, oggi tristemente inutilizzati per colpa di una miopia politica senza pari. L’outsourcing di servizi di sicurezza alle Private Military and Security Companies (PMSCs) costituisce infatti ormai una prassi per gli attori principali dell’attuale sistema internazionale, popolato da imprese ben orientate al profitto e che non hanno conosciuto crisi. Uno dei nodi più delicati è stato focalizzato dal dottor Saccone, Security Manager ed ex Chief Corporate Security di ENI: …“in Libia, prima della sciagurata guerra imposta dal francese Sarkozy per motivi economici ed elettorali, operavano stabilmente 200 imprese italiane: ora solo l’ENI. Il motivo è che l’ENI ha una struttura in grado di assicurare protezione ai suoi impianti tramite compagnie di sicurezza specializzate, mentre le altre aziende – qualcuna delle quali ha anche tentato di autoproteggersi in questo modo – hanno dovuto rinunciare e abbandonare il campo. E quindi è facile immaginare quale danno per gli interessi economici dell’Italia sia derivato dall’estromissione imprenditoriale dalla Libia. Il bisogno di sicurezza e di protezione si è dilatato e a partire dal 2004 sono stati rapiti ben 70 gli italiani (63 salvati, 6 morti ed uno ancora disperso, Paolo Dall’Oglio). E’ quindi evidente che il mercato della sicurezza privata è in forte espansione e vede Stati Uniti, Russia e paesi emergenti dell’Asia controllarne circa il 60%”…

La norma (che non c’è)
Perché questo accade? In Italia il nodo cruciale è rappresentato dalla mancanza di una legge che regolamenti l’attività delle “Private Military Security Companies”, realtà imprenditoriali che, nel terzo millennio e per volontà della nostra classe politica, dovrebbero ancora operare secondo l’anacronistico TULPS, un testo consumato dal tempo e datato 1931. Che de facto condanna le realtà italiane a “non operare”. Testimonianza ne è l’esempio della società italiana che in Iraq sta operando al consolidamento della diga di Mosul, un’infrastruttura che rischiava di collassare per mancanza di manutenzione. Il cantiere è protetto da un contingente di circa 400 Bersaglieri. Ora, trattandosi di interessi privati, questa sicurezza dovrebbe essere altrettanto privata, anziché coinvolgere direttamente lo Stato, con le conseguenze giuridiche, politiche e diplomatiche che questo comporta. In Italia, nel frattempo, viviamo nell’atavico paradosso: abbiamo le competenze ex militari, l’imprenditorialità, la dimensione, ma non possiamo operare per commi & cavilli risalenti al regno borbonico e le nostre aziende che operano all’estero non possono rivolgersi a compagnie di sicurezza italiane per mancanza di una legge che regolamenti la loro attività.

Il mercato (che ci sarebbe)
Infatti, nel corso del convegno emergono dati tanto sorprendenti, quanto paradossali, su come l’impiego delle compagnie private di sicurezza sia sempre più massiccio e diffuso, con una crescita annua stimata oggi intorno al 4%, cifra che nei prossimi anni varrà oltre 250 miliardi di dollari. Certo parliamo di un impiego che comporta rischi ma anche opportunità, e che, al netto dei pregiudizi che nel nostro paese impediscono una visione corretta e pragmatica della sicurezza globale, se adeguatamente normato consentirebbe di garantire, in via del tutto complementare, il soddisfacimento di tutte quelle esigenze di sicurezza che lo Stato, per croniche ragioni di negatività del bilancio pubblico, non è più nelle condizione di assicurare. Il 60% delle nostre imprese, è stato riferito al convegno, in effetti lavora o ha interessi all’estero: secondo dati comunicati dalla Farnesina, nel mondo ci sono 471 aziende iscritte nel sito del ministero dedicato agli italiani che si trovano all’estero. Ma colossi energetici nazionali come l’ENI vengono protetti in Libia da una società di security britannica (AEGIS). Non a caso il dr Trojano, responsabile nel 2006 del PRT (Provincial Reconstruction Team) in Iraq, ha ricordato che la decisione politica di ritirare il contingente militare da Nassiryah, lasciandovi però il PRT, abbia fatto sì che la protezione riservata al personale e ad una struttura italiana, fosse assegnata proprio ai britannici della PSC AEGIS Defence Services per tre milioni di euro l’anno.

Le opportunità (che svaporano)
Appare dunque evidente che, con una normativa ad hoc, agli ex militari si potrebbero offrire nuove opportunità di lavoro (dalla protezione dei beni aziendali alla formazione di personale, dai rapporti con le istituzioni italiane in patria e all’estero e gli apparati di informazione, fino alla formazione e certificazione NOS). Insomma, l’Italia deve essere pronta ad una nuova strategia per la sicurezza, proiettata ormai oltre frontiera; ma per far questo occorre un passaggio culturale quanto politico, perché tale personale di security non istituzionale viene troppo spesso, e con grave errore, paragonato ai servizi resi dai mercenari. E per fugare ogni possibile equivoco, appare chiaro che a questi operatori di security dovranno essere date tutte le tutele legali per poter operare al meglio, nel rispetto delle norme del diritto internazionale e di quello dei paesi dove andranno ad operare. Lo stesso capo del pool antiterrorismo di Roma, il procuratore dr. Giancarlo Capaldo, ha sottolineato come una materia estremamente delicata come questa imponga la ricerca di soluzioni giuridiche chiare, e non più procrastinabili dalla politica.
La pirateria (che ha poco senso)
Ma ad oggi questo impiego in Italia è riservato solo ad un ambito ristrettissimo, attivato peraltro sullo scenario internazionale: quello dell’antipirateria marittima, in cui è tuttavia innegabile che la tutela prestata non si limiti al solo bene “nave mercantile”, ma si estenda, di fatto, alle persone, con le conseguenti difficoltà burocratiche, amministrative, di gestione, ecc. dovute alla carenza di una regolamentazione adeguata. Con circa 60.000 GPG operanti (numericamente una terza forza di polizia!) e oltre 30mila militari in ferma volontaria, le professionalità da aggiornare e impiegare di certo non mancano. Un caso di scuola? I Marò, notissimi fucilieri del reggimento San Marco che proteggevano una petroliera italiana in zona ufficialmente dichiarata dalla stessa ONU a rischio pirateria. Dopo i noti fatti, la MM ha cessato il servizio sbarcando i suoi uomini: si è così valutata la possibilità di far eseguire le scorte da personale di sicurezza privato – GPG adeguatamente formate ed addestrate con un trascorso militare. Tutto inutile, ha ricordato il Presidente di Federsicurezza Dr. Gabriele: …“per ogni tratta di scorta nelle zone a rischio (tipo quella dei fucilieri del San Marco Ceylon-Dubai) sarebbero state necessarie 54 autorizzazioni diverse e in ogni caso le GPG avrebbero potuto proteggere solo le merci, quindi se i pirati avessero aggredito l’uomo (il Capitano o un membro dell’equipaggio), le guardie non avrebbero potuto intervenire, ma avrebbero dovuto chiamare la Polizia (in Italia!).. Risultato: il naviglio mercantile battente bandiera italiana è sotto la protezione di compagnie di sicurezza straniere. A questo punto, vogliamo ammettere che la guardia giurata che svolge servizi di antipirateria non può esimersi dal tutelare anche la persona fisica? E se può svolgere funzioni di antipirateria, perché allora non può vigilare anche su ambasciate, consolati e rappresentanze all’estero? E perché non riunire i due pilastri della safety e della security e rivisitare una normativa per le oltre 100.000 risorse altamente professionalizzate, non armati compresi, che abbiamo a disposizione? E infine, vogliamo cominciare a parlare di armi? Se per proteggere una banca in Italia basta la pistola, per la diga di Mosul serve per ben altro, ma accennarlo sembra quasi eresia”.

La politica (che latita)
L’intervento di chiusura del Sen. Nicola La torre, presidente della Commissione Difesa del Senato, ha sottolineato il pericoloso ritardo che la politica conserva sul tema della sicurezza sussidiaria, quindi l’urgenza di adeguare l’attuale normativa (security privata, figura dei security manager) – pur preannunciando che, stante l’attuale legislatura, peraltro in scadenza, la questione non verrà presa comunque in esame in tempi brevi! Ebbene, vorrei ricordare al Senatore che giace ormai impolverata, nonostante i continui solleciti da parte del parlamentare proponente, un’interrogazione a risposta scritta, indirizzata a ministeri dell’Interno e MISE, che da oltre 3 anni e mezzo non trova risposta. Si tratta di un atto parlamentare interessante nei settori security/intelligence sul quale riflettere in fatto di responsabilità, e scarso interesse, proprie della classe politica

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Giovanni Villarosa

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