Si apre una fase due di contenziosi: dalle misure di sicurezza da adottare in ambito lavorativo ad un possibile “diritto” allo smartworking, dall’imposizione di ferie alla rotazione degli ammortizzatori sociali, dal Covid-19 rubricato come infortunio INAIL ad un congelamento dei licenziamenti che non potrà durare in eterno. Tutti temi caldissimi, che imporranno nuove flessibilità e nuove fattispecie in materia di orari, ferie, malattia, comporto, licenziamento e soprattutto di uno smartworking che somiglia più ad un lavoro autonomo che al lavoro dipendente. Con quel che ne consegue in termini di contrattazione collettiva e ruolo della stessa sindacalità. Ne abbiamo parlato con l’Avv. Carlo Fossati, senior partner del prestigioso studio Ichino Brugnatelli e Associati, segnalato dal Sole 24 Ore tra gli studi legali dell’anno 2020 per l’area “Diritto del lavoro e welfare”.
Durante la pandemia si sono susseguite indicazioni, a volte contrastanti, sulle misure di sicurezza da adottare in ambito lavorativo ed è stato imposto l’utilizzo di dispositivi di protezione anche quando tali strumenti non erano massivamente disponibili. Dal suo osservatorio, si profila all’orizzonte una mole di contenziosi?
Allo stato attuale non registriamo un’esplosione di contenziosi, ma va detto che la stessa giurisdizione ha subito in massima parte una battuta d’arresto a causa della pandemia, quindi il vero banco di prova saranno i mesi a venire. Certo è che sul tavolo sono piovute già diverse diffide e richieste di risarcimento danni con riferimento soprattutto al tema della sicurezza sul lavoro.
Il settore più bersagliato è ad oggi quello della sanità privata, ma stanno giungendo diffide anche per altri settori e ci attendiamo un boom a qualche mese dalla riapertura complessiva delle attività.
Su quali aspetti vertono in genere le controversie?
Al centro troviamo quasi sempre la salute del personale, che l’art. 2087 cc pone in carico al datore di lavoro: si contestano in genere l’assenza di dispositivi di protezione e il mancato rispetto dei protocolli sanitari. Altro tema molto sentito è la sussistenza o meno di un “diritto” a lavorare in modalità agile (tema agevolato da un recente provvedimento del tribunale di Arezzo, al quale alcuni articoli di stampa hanno attribuito un significato probabilmente sproporzionato rispetto alla reale portata della fattispecie). Collegato a questo aspetto, il tema delle fruizione forzata di ferie e permessi accumulati, e ancora la modalità di fruizione degli ammortizzatori sociali, con particolare riguardo alla rotazione, che ha colpito alcuni lavoratori assai più di altri.
La fase di “normalizzazione” sarà dunque un condensato di contenziosi… ma di fronte a disposizioni contraddittorie, frammentate e frettolose, le imprese non dovrebbero godere di valide attenuanti?
Bisogna a mio avviso distinguere tra la fase 1 e la fase 2, come pure tra tipologie di contestazione.
Nella prima fase, in piena emergenza, si sono affastellati dei DPCM (che peraltro, come strumento giuridico, prestano a mio avviso il fianco a diversi profili di incostituzionalità) che hanno ripreso diktat dell’OMS e dell’ISS rivelatisi poi essi stessi fortemente contraddittori. Basti pensare alle mascherine, su cui si è detto di tutto e di più.
Ma il vero punctus è che la norma di riferimento non è la decretazione emergenziale, bensì il codice civile. L’art. 2087 è una norma in pieno vigore, che va però sempre interpretata con riferimento allo stato dell’arte e delle conoscenze di cui poteva disporre il datore di lavoro nel momento in cui ha predisposto le misure di sicurezza. Occorrerà quindi valutare passo per passo quali direttive dell’OMS, dell’ISS, dei DPCM o delle ordinanze regionali o comunali sono state seguite dall’impresa e in quale momento.
In fase 2 disponiamo invece di una normativa di riferimento, se vogliamo non sempre organica e ragionevole, ma comunque esistente: i vari protocolli che sono stati diramati.
E che succederà in questa fase 2, con un contagio da Covid-19 rubricato come infortunio sul lavoro e inversione dell’onere della prova, ai danni soprattutto delle imprese labour intensive come la vigilanza privata?
La responsabilità – non solo civile ma anche penale – dei datori di lavoro per contagio da Covid-19 è un tema al centro del dibattito giuridico, ma credo – e auspico – che si arriverà ad escluderla di default nel momento in cui si dimostri che l’azienda abbia messo in campo tutte le misure richieste dai protocolli tempo per tempo vigenti.
Sarebbe utile, però, in tal senso un intervento legislativo: in mancanza, toccherà alla giurisprudenza trovare lo spazio per cristallizzare questo principio, in mancanza del quale diventerebbe ancora più difficile fare impresa in una fase già di per sé tanto delicata.
Le nuove regole impongono di non prendere i mezzi pubblici negli orari di punta, di auto quarantenarsi in presenza di sintomi compatibili con il Covid, di privilegiare il lavoro agile: l’emergenza imporrà nuove flessibilità e nuove fattispecie anche alla contrattazione collettiva?
Sicuramente saranno necessarie nuove riflessioni in materia di orari, ferie, malattia, periodo di comporto, smartworking. In particolare, l’ultimo aspetto obbligherà la contrattazione collettiva ad un ragionamento molto ampio. Il lavoro agile mette infatti in crisi il tradizionale paradigma del lavoro subordinato, ossia l’art. 2094 cc, che presuppone l’esistenza di un’azienda nella quale il lavoratore si possa mettere a disposizione delle direttive del datore di lavoro. Lo smartworking invece esige nuovi parametri per misurare la durata della prestazione e la stessa entità del compenso (legata ad una valutazione di risultato che è tipica, invero, del lavoro autonomo). In un contesto così innovativo, anche il ruolo del sindacato dovrà per forza cambiare. Diciamo che la pandemia ha agito da “acceleratore” di un processo che era già in atto ma che avrebbe richiesto tempi più lunghi: quello della dematerializzazione dell’impresa.
Ultimo tema, caldissimo: il licenziamento. Il Presidente Conte ha dichiarato che nessuno verrà licenziato a causa del Covid-19. Tuttavia se i protocolli impongono (si pensi ad un ristoratore) di fatturare il 30% in meno, il 30% del personale sarà in esubero…come se ne esce?
Non si potrà andare avanti in eterno a colpi di cassa integrazione, questo è di tutta evidenza.
Ad un certo punto licenziamenti e chiusure saranno inevitabili non solo dal punto di vista fattuale, ma anche giuridico. Il congelamento dei licenziamenti da parte dell’Esecutivo cozza con l’art. 41 della Costituzione, che attribuisce all’imprenditore la massima libertà nell’esercizio e nell’organizzazione dell’iniziativa economica privata. La violazione diventa, a mio avviso, ancora più manifesta dal momento che nel periodo di blocco non è stata prevista con certezza la possibilità di accedere ad un ammortizzatore sociale, e alla riapertura ci si è trovati davanti uno scenario lavorativo e di mercato radicalmente diverso.