La vigilanza privata è un settore di interesse nazionale o svolge una comune attività di impresa assoggettata alle regole del mercato? Dopo 78 anni di TULPS e una riforma epocale, è tuttora questo l’interrogativo sul quale si dibatte un settore a mezza via tra la pubblica funzione e il libero mercato, perché da questo snodo si dipartono una serie di conseguenze cruciali: se la sicurezza privata è un settore gestito, è corretto che sia vigilata – ma anche indirizzata – in modo dirigistico; se invece è assoggettata alle libere regole del mercato, allora deve poter utilizzare creativamente strumenti mutuati da altri settori.
Attualmente la vigilanza privata italiana non è né l’uno né l’altro.
Quindi non è in grado di produrre marginalità, né di far fronte alle nuove esigenze del mercato, ai robusti competitor in arrivo e al riassetto che, inevitabilmente, riorganizzerà la scacchiera competitiva del domani. Questa la sintesi di un – unico, a memoria di comparto – momento di riflessione tra i player del mercato, in cui dieci top manager della vigilanza italiana si sono confrontati per disegnare i contorni di un settore destinato a cambiare pelle.
Dieci diversi approcci al fare vigilanza ai tempi della crisi per dieci gruppi (immensi eppur minuscoli, se paragonati alle “tre sorelle” della sicurezza mondiale) accomunati dalle problematiche di qualunque attività d’impresa, ma anche da pastoie e lacciuoli peculiari di una categoria dal forte potenziale e che tuttavia si dibatte tra la morsa di una crisi che non l’ha risparmiata, nonostante le pretese di resilienza, e tra una riforma che fa acqua sotto tanti aspetti.
Il tutto condito da patologie e distorsioni della concorrenza decisamente peculiari del comparto.
Alle tipicità genetiche, si aggiunge infatti una tendenza del mercato a lottare per il centesimo, con derive che spesso allontanano dalla legalità. Questa tendenza, arginata forzosamente dalle (da taluno compiante) tariffe di legalità, è divenuta deflagrante con la liberalizzazione dei prezzi imposta dall’Europa, partita formalmente nel 2008 ma che ha visto le conseguenze più importanti a partire dal 2010. I prezzi sono scesi in caduta libera, con una contrazione delle tariffe della vigilanza fissa per percentuali che oscillano da un 20 ad un 30% a seconda delle aree di operatività, “il che si traduce in un calo del margine operativo lordo, quindi ricade direttamente sulla profitability e sulla capacità di fare investimenti” (Italo Soncini, IVRI).
La forza negoziale del settore è pari a zero ed il continuo pressing di Banca d’Italia, BCE, Ministero dell’Interno e un CCNL che non si rinnova da tre anni rendono complesso anche quantificare i costi. E’ vero che dovrebbe essere un momento di transizione (anche perché si sta raschiando il fondo del barile), ma il dubbio è che ci si possa avviare verso il peggio, dal momento che “l’aumento delle dinamiche competitive e la caduta dei prezzi in un mercato maturo è solo in fase di gestazione” (Lorenzo Manca, Sicuritalia).
Impatto della riforma
In questo scenario di estrema complessità congiunturale, si incunea una riforma del settore attesa da 75 anni, ma che non poteva cadere in un momento peggiore, soprattutto per gli oneri che impone alle imprese e che rischiano di far tracollare il collante economico delle realtà più piccole.
Diverso è l’impatto sulle realtà più dimensionate, benché per gli operatori di grosso calibro l’adeguamento si traduca in numeri altrettanto importanti da mettere a bilancio.
Quello che non è più sostenibile è che la riforma incida solo sugli operatori più esposti, e continui a far agire e proliferare gli istituti che vivono di espedienti, nella certezza dell’impunità e forti di un sempre persuasivo ricatto occupazionale.
Ma come sempre l’amministrazione si muove a doppia velocità: tanto zelante nell’incamerare cauzioni e nel sanzionare i soliti noti anche per delle inezie, eppur tanto lenta a far rispettare altri aspetti della norma che dovrebbero essere immediatamente applicabili, come la definizione del perimetro della vigilanza privata rispetto ai servizi fiduciari, o il rispetto di tariffe adeguate alle tabelle di congruità (tema che si lega a doppio filo al rispetto degli obblighi assicurativi, previdenziali e fiscali da parte delle imprese).
Anzi, la pubblica amministrazione è la prima a non rispettare i decreti da lei stessa emanati, dal momento che le committenze pubbliche continuano ad emettere bandi di gara al massimo ribasso e ad assegnare servizi di sicurezza a tariffe anomale. “Per far valere i nostri diritti, siamo costretti a spendere tempo e risorse in cause che durano anni, dal momento che le verifiche sulla tariffe anomale non scattano in automatico e la PA non ne risponde” (Salvatore Fiorentino, Coopservice). Nel frattempo i servizi vengono assegnati e chi si è visto si è visto.
Dulcis in fundo, questo primo atto della riforma della sicurezza privata potrebbe nascere già vecchio, dal momento che il CoEss sta ora elaborando un Libro Bianco che contiene degli standard di qualità e dei requisiti di capacità tecnica ben più elevati rispetto a quelli richiesti dal DM 269/2010 (Giorgio Manicone, Sipro).
I grandi gruppi esteri stanno insomma alzando l’asticella per prepararsi allo sbarco in Italia. E che lo sbarco sia vichingo, ispanico o british, non sarà certo indolore.
E’ pur vero che altri settori stanno soffrendo di più e che almeno la vigilanza privata non si deve confrontare con la Cina o con altre valute (Luigi Ferrara, Fidelitas), ma anche questo si traduce in un’arma a doppio taglio: il fatto di guardare solo al contesto di mercato italiano mette infatti il settore davanti ad un paese che sta producendo un PIL reale pari a quello dei primi anni 2000.
C’è peraltro chi già guarda all’estero per sviluppare nuovi servizi (“fuori all’Italia esistono modelli interessanti” – rammenta Paolo Spollon, Battistolli) e c’è, invece, chi ritiene che le guerre non si possano fare se ci sono problemi in casa e che l’attuale incertezza sul mercato locale non permetta di fare programmazioni a lungo termine (Lorenzo Manca, Sicuritalia).
L’unione fa la forza
E tuttavia questa stagnazione nasce anche da strategie commerciali poco lungimiranti, figlie della mancanza di una cultura manageriale ereditata dalla presenza di veri oligopoli familiari, più che di attività d’impresa. Questo “ha di fatto impedito al settore di crescere, creando diffidenza nelle istituzioni e nella stessa cittadinanza verso il nostro lavoro” (Raffaella Zanè, Securitas).
Se però il settore abbattesse alcune barriere culturali e antiche diffidenze competitive, si potrebbe crescere assieme, sottolineando più efficacemente il concetto che la sicurezza non è solo un centro di costo, ma anche e soprattutto un centro di investimento (Cesare Biasini, IVU).
Aggregazione è quindi la parola chiave del futuro, assieme a concentrazione – soprattutto nel trasporto valori, visto che il circolante complessivo diminuirà – dominata dai player più robusti, che accelereranno il processo di dimensionamento tramite il rafforzamento dei propri territori e la ricerca di nuove aree operative.
Insomma, è facile ipotizzare uno scenario dove non più di 3/4 gruppi si spartiranno il territorio, forti di un’imponente massa critica – quindi di minori costi fissi, di un valido arsenale tecnologico e di efficienze operative determinate da una buona organizzazione del lavoro e da un management di livello. Ma resteranno anche poche aziende di medie dimensioni e pochi operatori di dimensione locale “purché mostrino un alto grado di specializzazione per tipologia di servizio/prodotto o per conoscenza del territorio” (Lorenzo Manca, Sicuritalia).
E le private equity cosa faranno? Certamente venderanno, anche perché sono costrette a farlo. Un’uscita in borsa non pare probabile “perché le dimensioni delle imprese sono troppo ridotte e i flussi di cassa non consentono una quotazione, oltre a mancare i driver di crescita necessari” (Silverio Davoli, Cross Border). Certamente le private equity giocheranno un ruolo importante
nel processo di aggregazione e probabilmente anche nell’ingresso delle multinazionali, perché è chiaro che i gruppi esteri entreranno rapidamente in Italia, e a gamba tesa.
Tuttavia non dovrebbero raggiungere in tempi brevi quote di mercato dominanti, salvo in alcuni segmenti molto specifici. Starà quindi ai player italiani consolidarsi sul mercato: vincerà chi evolverà prima.
I nostri operatori non stanno comunque alla finestra: si preparano a fronteggiare lo straniero investendo in formazione e qualità, allargando il business, indirizzandosi verso servizi ad alta specializzazione e acquisendo tecnologie, che permettono di fare prezzi aggressivi e buone economie di scala.
Si va inoltre verso una crescita del perimetro dei servizi (“all’estero le guardie guidano le ambulanze e assistono la polizia locale”, Italo Soncini – IVRI) e un allargamento delle funzioni della guardia, che passerà da mero addetto alla security a vero controllore dei sistemi tecnologici, con attività che lambiscono anche la safety, come l’utilizzo di defibrillatori (Giorgio Manicone, Sipro).
La vigilanza del futuro, quindi, cambierà pelle.
Sarà tecnologica, integrata, ma soprattutto disarmata. A condizione, però, che i servizi c.d non decretati vengano riqualificati in forma di business, “superando l’attuale ruolo di scialuppa di salvataggio per far quadrare i conti della vigilanza armata” (Luigi Ferrara, Fidelitas).
E’ chiaro che, per andare nella direzione di un business di qualità, è essenziale trovare una corretta definizione del perimetro operativo dei servizi disarmati ed un inquadramento contrattuale altrettanto adeguato. Cosa non facile, visto il perdurante stallo della situazione negoziale al tavolo di trattativa contrattuale.
Small business, big business?
L’auspicio condiviso è che il 2013 sarà di crescita, anche perché il fondo lo stiamo già toccando.
Il segmento degli allarmi per residenziale e piccoli negozi, ora poco coperto in Italia (o meglio coperto come un servizio professionale, quindi non competitivo), farà la differenza.
“Una ricerca ISTAT nel Nord Est rileva una forte necessità di sicurezza espressa dalle famiglie. Il problema è la scarsa disponibilità economica: dovremo quindi elaborare delle strategie di offerta adeguate e comunicare meglio la nostra immagine professionale” (Raffaella Zanè, Securitas).
Se la crescita della domanda si scontrerà con una disponibilità economica sempre più scarsa della clientela, efficientare l’organizzazione sarà un punto nodale (Salvatore Fiorentino, Coopservice), anche perché, senza ottimizzare gli interventi, gli allarmi su small business possono rivelarsi un boomerang. La riforma e l’apertura dei mercati potrebbero essere l’occasione per ottimizzare i processi gestionali, sul doppio binario del costo del prodotto (leggi: ore di servizio) e dell’ottimizzazione dei processi interni, con riduzione di tempi morti e duplicazioni.
“Strumenti ready-to-use come l’informatica permettono di tenere sotto controllo processi e parametri di costo, arrivando a prevedere scenari e prevenire rischi in caso di variazione di parametri chiave” (Sandro Aquilanti, ISA).
C’è chi dell’informatica fa già ampio uso, tanto da integrarla nei servizi: “l’istituto che abbiamo acquisito era privo di tecnologie: ora abbiamo 100 ingegneri e ci stiamo specializzando in sicurezza logica. Con l’informatica abbiamo recuperato contratti e marginalità” (Cesare Biasini, IVU).
Vexata quaestio
Informatica, tecnologie, small business, nuovi servizi, invasioni barbariche.
Questo excursus sul futuro, paradossalmente, fa tornare al punto iniziale della trattazione.
La vigilanza è un settore regolamentato (come le banche, le assicurazioni, le società di gestione del risparmio, le società di intermediazione mobiliare), oppure è un’attività d’impresa che si muove allegramente nel libero mercato?
La domanda non è oziosa, dal momento che nel settore bancario l’indirizzo sistemico di Bankitalia ha fatto sì che, in soli 7 anni, dalla “foresta pietrificata” si passasse ad un sistema aperto alla competizione anche dei gruppi esteri, ma che ha permesso ad alcuni player nazionali di crescere e di consolidarsi – prima sul territorio nazionale e poi anche all’estero.
Potrebbe essere una strada percorribile anche per la vigilanza, chiede Italo Soncini (IVRI)?
Il più è capire cosa vuole l’autorità tutoria: quante imprese immagina sul territorio, come intende attuare i controlli, come gestirà l’ingresso delle multinazionali estere, se preferisce far colonizzare il settore o se tenterà di far crescere anche gli italiani, che hanno capillarità e conoscenza del territorio.
Il ministero dell’Interno, nelle parole di Vincenzo Acunzo, immagina un sistema composto da poche grandi aziende “generaliste”, che cioè assorbano tutti gli aspetti della sicurezza privata e che si appoggino ad aziende medie o piccole selezionate in virtù della loro forte specializzazione in prodotti/servizi o della loro presenza sul territorio.
Queste imprese (non Istituti ma imprese, si badi bene) si muoveranno in un mercato libero, ma garantito professionalmente tramite un articolato piano di formazione degli addetti e dei manager. Data l’endemica carenza di personale e di strutture dell’amministrazione dell’Interno, il sistema evolverà verso un controllo della qualità garantito a monte, tramite un intervento ad hoc degli enti di certificazione. Sarà quindi un mercato libero, regolato con un sistema di controllo flessibile e governato, a regime e chiusura di sistema, da un’Autorithy.
Questo, almeno, nelle intenzioni dell’architetto della riforma del settore, il Prefetto Giulio Cazzella.
Solo il tempo potrà dirci se la nostra foresta pietrificata diventerà una jungla selvaggia o un ammasso di bandierine straniere con qualche tricolore che sventola qua e là.
Qualunque direzione prenderà la vigilanza, sarà però essenziale risolvere l’interrogativo iniziale di questa trattazione.